A scrivere non te la cavi male: hai sempre avuto qualche dote, oppure le hai coltivate nel tempo: hai letto molto, hai frequentato qualche seminario o qualche corso (magari con me!) e scrivere non è più un’operazione titanica.
Eppure, un filo di apprensione permane fra le dita, quando scrivi una relazione: è quando ti tocca riportare ciò che le persone ti raccontano durante i colloqui con te.
Da una parte, infatti, sai che la relazione deve presentare tutte le informazioni necessarie a chi deve emettere un decreto, un dispositivo o prendere comunque una decisione; non si limita a fare il resoconto dei fatti a un lettore indistinto, ma prepara il terreno ad azioni successive. Scrivere non ti basta: devi farlo in modo finalizzato, pensando a un interlocutore che non conosci o – addirittura – a più interlocutori (giudice, avvocato, collega di altro servizio, persona in carico, suoi famigliari, eccetera). È fondamentale che tu riporti in modo chiaro e inequivocabile situazioni familiari, sociali, ambientali, storie di vita e, a volte, proposte di intervento o progetti.
Quando nella relazione, però, devi riportare informazioni desunte dalle conversazioni tenute durante i colloqui, la senti su di te tutta la responsabilità, deontologica e giuridica, della distanza che necessariamente devi tenere dai fatti che riporti e del punto di vista che intendi assumere nel riportare le conversazioni.
Perché quel punto di vista è sempre una scelta, e dipende da te.
Nella scrittura narrativa la visuale che il narratore assume di fronte ai fatti narrati o ai personaggi viene chiamata focalizzazione e gli studiosi la classificano in tre categorie: focalizzazione zero, interna o esterna.
In questo caso il narratore osserva la storia dall’alto, conosce i suoi personaggi e le loro dinamiche, ne legge i pensieri, gli animi e gli intendimenti. Li giudica. Chi narra conosce ogni cosa, come Alessandro Manzoni ne I promessi sposi: è il cosiddetto narratore onnisciente, che ha governato la narrativa mondiale fino alla fine dell’Ottocento. Qualunque punto di vista dei personaggi è, ovviamente, assente.
In questo caso i fatti vengono presentati secondo il punto di vista di chi agisce o è presente all’azione; il narratore è interno al racconto, coincide con un personaggio e parla in prima persona. Se i fatti sono narrati dalla prospettiva di un unico personaggio, allora la focalizzazione è fissa; multipla se il narratore fa raccontare i fatti da più personaggi (e tutti parlano in prima persona). Questo permette a chi scrive di usare diversamente i mezzi di espressione come il flusso di coscienza, il monologo interiore o il discorso indiretto libero, cioè quando i pensieri di un personaggio fanno capolino nella narrazione senza passare al discorso diretto, per esempio come in questo passaggio della novella Ciàula scopre la luna di Pirandello:
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola là, eccola là, la Luna…. C’era la luna! la luna!
La parte sottolineata è un esempio di discorso indiretto libero, il pensiero di Ciàula.
In questo caso, il narratore è solo un testimone esterno alla storia che si limita a registrare ciò che vede senza esprimere giudizi e commenti: racconta in modo oggettivo l’azione dei personaggi, senza mai venire a conoscenza dei loro pensieri o dei loro conflitti interiori. Questo tipo di focalizzazione è tipica dei romanzi gialli, d’avventura, ma anche di altro genere come i meravigliosi racconti di Ernest Hemingway
Nelle tue relazioni, ovviamente, non devi conferire particolari sfumature al racconto – fantasy, verista, poliziesco, giallo – né assumere il punto di vista o la visione del mondo di uno o più personaggi: ciò che devi fare è raccontare la realtà nel modo più chiaro, esauriente e imparziale possibile, ma non freddo e noioso. Più semplice a dirsi che a farsi, lo so.
Le relazioni sociali non sono tutte uguali, come abbiamo visto in questo articolo: risentono del destinatario a cui sono indirizzate, del motivo per cui vengono scritte e del loro scopo; il testo cambia nei suoi contenuti, nelle sue finalità e anche nel grado di comfort con cui tu lo scrivi.
La relazione di aggiornamento è in linea di massima abbastanza semplice, almeno dal punto di vista della scrittura (la complessità delle situazioni è un’altra cosa, e proprio per questo occorre evitare tutte le complicazioni inutili).
L’aggiornamento di una situazione contiene la descrizione di eventi che si sono susseguiti in un certo lasso di tempo. La focalizzazione sarà esterna e tu: una specie di cronista che riporta i fatti, in modo logico e funzionale all’interesse di chi legge.
Il grado di comfort cala drasticamente quando tu entri nel racconto perché parte delle dinamiche. Come togliersi dall’impiccio? Le soluzioni più diffuse sono le forme deittiche come “la o lo scrivente assistente sociale”, “il servizio scrivente”, “questo servizio”, “questa équipe” e altre brutture tipiche del burocratese, come se qualunque riferimento diretto a chi scrive – cioè a te – fosse vietato o sconveniente. Non lo è.
Parla in prima persona, puoi!
Usare la focalizzazione interna non solo è appropriato al momento e allo scopo, ma produce benefiche ripercussioni sulla tua immagine di professionista; ti permette di evitare i cliché e conferisce alla tua narrazione maggior vividezza, testimoniando il tuo ingaggio e il tuo impegno in prima persona nel caso che stai trattando. Così, se hai convocato colloquio il signor Mario Rossi, andrà benissimo scrivere “Ho convocato a colloquio il signor Mario Rossi” con tutte le indicazioni di come si è svolto il colloquio e di come si è comportato il signor Rossi. SI PUÒ FARE. Giuro.
E quando devi riportare quel che Mario Rossi dice a colloquio? Eh, è lì he il gioco si fa duro!
Questa è una situazione super scomoda per la maggior parte delle persone che seguo in supervisione o nei corsi di formazione. Anche in questo caso la soluzione più diffusa è il ricorso alle forme dichiarative: “Mario Rossi riferisce”. Questo ti permette di prendere le distanze da ciò che Mario dichiara e tanto basta per farti sentire al sicuro.
Intendiamoci: le formule dichiarative vanno bene, purché non diventino a loro volta un cliché. Un rosario di “riferisce” è noioso per chi legge e produce nella sua mente la sensazione che mentre scrivi te la stai facendo sotto. Non inficerà la comprensione del testo, naturalmente, e morfosintatticamente sarà pure corretto, ma la tua autorevolezza ne uscirà sofferente. Che fare?
Per prima cosa, variare le formule, ed evitare di risuonare come un verbale di polizia.
E poi, farsi le domande giuste, come sempre: chiedersi in ogni momento se prendere le distanze da ciò che stai riportando è obbligatorio, appropriato, funzionale oppure no.
Se ti dico che mi sono laureata in lingue a Parma, è davvero necessario scrivere: “Francesca Gagliardi riferisce di essersi laureata a Parma”? Lo sarebbe solo se volessi mettere in dubbio il mio titolo di studio e se volessi che anche chi legge dubitasse. Se non è necessario, questa intenzione stona e ricade negativamente su te che scrivi.
Altro sarebbe se, convocata su segnalazione della scuola di mia figlia per non averla sottoposta alle vaccinazioni obbligatorie, ti dicessi che non l’ho fatto per paura degli effetti collaterali, perché il figlio del mio vicino A CAUSA dei vaccini ha cominciato a soffrire di asma, emicrania, psoriasi eccetera. Allora sì sarebbe funzionale prendere le distanze da una concatenazione causa-effetto tutta da verificare:
Dunque, bene la descrizione di luoghi ed eventi in terza persona (Mario è, Mario fa; la sua casa è un appartamento, una villetta, in affitto o di proprietà, eccetera), ma bene anche la prima persona (la collega ed io abbiamo conosciuto, incontrato, convocato Mario Rossi, oppure l’ho fatto io..).
Bene Mario riferisce, dichiara, riporta, ma sempre Q.B., quanto basta. E quanto basta lo devi decidere tu.
L’importante è costruire il testo secondo i criteri di efficacia, e, per questo, farsi le domande giuste:
Se è tutto a posto, invia. E nei commenti fammi sapere com’è andata!