È il 3 marzo, la Russia ha invaso l’Ucraina da 5 giorni e i primi profughi arrivano in Italia.
Sui social avevo letto la storia di Fabio, in viaggio verso la frontiera per portare in salvo i figli e i nipoti di sua moglie Angela, ucraina. E l’avevo contattato per offrire ai suoi cari un punto di prima accoglienza.
A casa mia arrivano sfiniti, con gli occhi increduli, i vestiti stropicciati, indossati per troppi giorni di fila.
Hanno percorso 4000 chilometri in 4 giorni, macinando asfalto, speranza di farcela, paura di sperare, incertezza e, alla fine, la gioia di essere in salvo. Una gioia pesante: quella di chi ha dovuto abbandonare tutto per salvarsi la vita.
Ci facciamo un caffè: «Nel campo profughi ho visto la disperazione» racconta Fabio. «Inimmaginabile. Bambini terrorizzati, adulti disperati, anziani increduli che possa succedere ancora. Ma ho incontrato anche tanta umanità: la gente rumena che alla frontiera ci ha stipato le auto di cibo e beni di prima necessità; il passaggio offerto a persone sconosciute che abbiamo accompagnato in Italia da parenti che vivono qui. E il primo incontro con i miei nipotini acquisiti che non avevo mai visto. Ci siamo lasciati alle spalle i pianti al telefono, i bombardamenti e le sirene, le notti passate a dormire in cantina, le finestre oscurate perché non trapelasse la luce a tradirci».
Ora sono in salvo, on una vita da ricostruire. Anzi, cinque. Hanno con sé solo due valigie: gli effetti più cari e le foto di famiglia. Perché solo se conosci le tue radici, puoi avere un futuro.
Il mio racconto sul sito di Vanity Fair, con le bellissime foto di Alice Porcari (Cremona, 1999)