Che lavori in proprio o per una grossa azienda, sai che il cliente è la tua risorsa più preziosa per crescere. Vendi divani, impianti elettrici, consulenze, scarpe, fiori, servizi fotografici? Non fa differenza: il cliente va ascoltato, corteggiato, curato e soddisfatto.
Qualcosa del genere esiste anche in ambito pubblico, dove più che di customer si parla di citizen satisfaction, cioè della soddisfazione del cittadino, che non solo è cliente o utente di un determinato servizio ma è destinatario attivo delle politiche pubbliche.
Come nell’ambito privato, la citizen satisfation rileva il grado di soddisfazione dei cittadini rispetto ai servizi offerti, ne registra esigenze, bisogni e aspettative, e rafforza la comunicazione, il dialogo e la fiducia della cittadinanza verso le pubbliche amministrazioni, spronando queste ultime a uscire dalla propria autoreferenzialità. O così dovrebbe.
Cinque anni fa, tre giorni prima di Natale, mio fratello Gianni moriva. Se lo portava via, dolorante e umiliato, una malattia rara e incurabile, lasciando incredula me e annientata mia madre.
Quando, poco tempo dopo, l’Inps ci contattò per devolverci il “trattamento di fine rapporto” (TFR) di Gianni in quanto sue eredi, mia madre e io non avevamo ancora smaltito né la tristezza né la fatica per quel dolore così annientante, tanto che quei soldi ci sembravano un insulto, una bestemmia. Una cosa orribile.
La mail con cui ci inviarono il modulo da compilare e restituire faceva così:
Mi sembrò una coltellata, altro che dialogo, fiducia, partecipazione, e citizen satisfaction. Il breve testo è un gelido messaggio standard che potrebbe essere stato scritto da un robot, in perfetto burocratese, così duro a morire:
Persino la firma sembra scritta da un robot: fredda, anonima, supponente, con quei saluti che cordiali non sono per niente.
Se la mail era scritta male, il modulo era peggio; una sola cosa era chiara: in caso di errore nella compilazione, addio TFR. Così, risposi alla mail chiedendo aiuto alla referente della pratica:
Nonostante la mail brutta, fatta di cliché e frasi fatte, Benedetta fu deliziosa: mi chiamò, in un minuto e mezzo mi spiegò quel che non capivo, e mi mise in condizione di sbrigare l’incombenza nel miglior modo possibile. Una meraviglia in tanta tristezza.
Neanche due ore più tardi, però, arrivò un’altra mail, questa volta da Anna, la sua responsabile; il messaggio, più o meno, era: ma come ti salta in mente di chiedere di essere ricontattata?? E io una risposta facile ce l’avrei: avete mai provato a chiamare l’Inps? Anche se i loro uffici si trovano a 400 metri da voi, come nel mio caso, passerete tassativamente da un centralino a Roma che inoltrerà la vostra chiamata a infinite persone diverse finché non vi avrà snervati in attese lunghissime e vi farà desistere, dopo avervi avvelenato il sangue.
La mail della responsabile aveva un tono, ovviamente, ben diverso rispetto alla conversazione con Benedetta:
In un altro momento il messaggio non mi avrebbe colpito tanto, in fondo si tratta del solito gelido testo in burocratese, ma nella situazione che con la mia famiglia stavo vivendo mi rese profondamente triste. Perché mai come allora le parole mi parvero lo specchio impietoso della supponenza di chi parla dall’alto del proprio ruolo di responsabilità, che peraltro rivendica, e delle sue intenzioni opache. Le intenzioni opache ovviamente non riguardano la liquidazione del TFR, che alla fine avvenne senza grossi intoppi o ritardi, ma il tentativo di svicolare dal merito (il modulo che mi avete mandato è scritto male, ci sono passaggi oscuri e frasi minatorie in quasi tutte le pagine: se sbagli addio liquidazione!), trincerandosi dietro a questioni di metodo: non puoi telefonare né chiedere di essere richiamata.
Rimasi sbalordita, con uno sciame di pensieri in testa.
Ok, ho fatto una cazzata a chiamare, ma che ne sapevo? In fondo non è che ho evaso le tasse, svaligiato una banca o ucciso qualcuno. E poi mica mi muore un fratello ogni giorno, grazie al cielo; quindi, non ho sviluppato nei confronti delle procedure quella grazia che viene dall’esperienza. Per contro, invece, tu con persone come me, cioè sopravvissute a qualcuno di caro, hai a che fare ogni giorno! Dal tuo lavoro non devi avere imparato molto.
E perché prendersi tanto disturbo per “istruirmi” sulle linee istituzionali con cui si può comunicare con l’istituto (anzi l’Istituto con la maiuscola ché si capisca che siamo importanti): Benedetta mi ha richiamato, magari ha fatto un’eccezione, visto la piccolezza della questione; è a lei che stai indirizzando il messaggio o è a me? E di quali Cassetti parli (anche loro maiuscoli), quelli delle calze?
Fossi stata più tranquilla mi sarebbe scappato da ridere, al vedere Totò fare capolino tra le parole! Invece ogni volta che ci ripenso, mi monta la rabbia. Perché da una parte capisco le procedure dell’Inps: ho lavorato tanto nella pubblica amministrazione anch’io, ma non mi rassegno ad accettare che il personale di un istituto (o un Istituto, con la maiuscola) pensi di comunicare con dell’UTENZA.
Qui dietro, ci sono persone. A volte ignoranti, a volte confuse. A volte arrabbiate o semplicemente tristi perché hanno perso malamente un parente e che per questo faticano a essere lucide come sarebbe consono che fosse. Non utenza, persone.
La richiesta di aiuto era inappropriata? Scusate, non venga considerata.
Ad Anna e a tutte le Anna delle PA chiedo, però, di considerare questo: la funzione del vostro istituto (o Istituto) è di servizio pubblico, al servizio DEL pubblico, e quindi anche mio; parlarmi in modo sussiegoso e autoreferenziale non solo è inappropriato al ruolo dell’ISTITUTO, ma anche umiliante per il destinatario, cioè per me.
Sono solo parole, direbbe qualcuno, ma non è mai così. Se in certi momenti ce le facciamo scivolare addosso un po’ indifferenti e rassegnati, in altri ci graffiano e ci fanno male. Un’occasione persa di conquistarsi la fiducia dell’utenza.
Bellissimo articolo, seppur tristemente vero .
Questo è esattamente il Mood che ha ogni comune mortale ( utenza!) ogni qualvolta deve interfacciarsi con qualche pubblico ufficio
Per fortuna, anche se esistono molte Anna, a fare da contrappeso esistono anche ( ancora troppo poche) Benedetta.
Ma soprattutto esiste anche una Francesca che sta tendando di umanizzare tutto il processo!