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Il mostro nel piatto

Marzo 15, 2022

Una bella estate: il mare, la birra, le risate e gli amici mentre i nostri figli fanno comunella poco più in là. Vite normali, fatte di piccole cose normali. Poi qualcosa si incrina. La figlia di uno di loro improvvisamente aumenta l’attenzione verso il cibo e le calorie, riduce i pasti, incrementa l’attività fisica. E in un attimo si trova piombata nel baratro, un inferno in cui si inabissa trascinando con sé le persone più care: anoressia. Gli occhi di suo padre, spaventati e increduli, non li dimenticherò mai.

Lo schema spesso è questo: sono giovani, sportivi, pieni di interessi e hanno una vita normale. Poi, improvvisamente, qualcosa si spezza e non sai nemmeno perché. All’inizio sembra solo il desiderio di restare in forma: tenere d’occhio l’alimentazione, evitare i dolci, i cibi grassi, gli eccessi; comincia subdola e sommersa la deriva: il regime alimentare si trasforma in una pericolosissima dieta fai-da-te e lo sport in un’ossessione per il controllo delle calorie da bruciare e bruciare e bruciare.

Quando la malattia arriva a devastare il corpo, il mostro ha già fatto molto del suo lavoro e lo stadio è avanzato.

Un tempo si pensava che le cause dei disturbi alimentari fossero da ricercare nel contesto familiare, in particolare nel rapporto con la madre, e le famiglie venivano colpevolizzate. In realtà si tratta di malattie psichiche e studi clinici hanno dimostrato che l’insorgenza è causata da molti fattori, potenziati, negli ultimi due anni, dall’inattività, dall’isolamento e dalla perdita dei ritmi consueti: l’onda lunga del Covid e dei suoi effetti collaterali.

Per questo è necessario affrontare il problema attraverso un approccio multidisciplinare, grazie a diverse figure professionali che prendano in carico la persona malata e tutta la sua famiglia. Tuttavia, in Italia manca ancora una cultura del disagio alimentare diffusa, i centri di cura sono pochi, e le liste di attesa sempre più lunghe, così molte famiglie si trovano a vivere la malattia con vergogna per lo stigma sociale, e in solitudine e isolamento per la mancanza di strutture specializzate.

Un baratro in cui cadono tutti.

Ne parla nel suo La famiglia divorata. Vivere accanto al disturbo alimentare (edizioni Mursia, 139 pagine, 16 euro) Agnese Buonuomo che ho intervistato per Vanity Fair, in un articolo dedicato ai disturbi alimentari in occasione della giornata del fiocchetto lilla. Nel libro, Flavia, Roberta, Enea, Lollo Lea, Azzurra, Aurora, sono alcuni dei ragazzi che lottano con un disturbo che paralizza mente e corpo. A volte guariscono, a volte resistono. A volte, no. A raccontare le loro storie sono genitori o fratelli e sorelle, che vivono quell’incubo per lo più nel silenzio delle mura domestiche, sovrastate dall’ignoranza generale, dagli stereotipi comuni e dalla poca attenzione sociale.

Ho avuto modo di intervistare alcuni di loro per uno degli articoli più sofferti che mi è mai capitato di scrivere.

Perché non te la immagini una situazione in cui una persona malata chiede scusa o senta di dover chiedere scusa a chi le sta vicino per esseri ammalata. Non te la immagini una situazione in cui hai bisogno di assistenza e di cure specialistiche, ma la regione dove vivi non ha nessun presidio. Niente.

«Ho vissuto mesi con la valigia in mano», mi ha raccontato al telefono la mamma di Flavia. Per aiutare sua figlia, aveva lasciato a Napoli il marito e la figlia minore, per accompagnare la maggiore nella sua odissea contro l’anoressia dalla Campania al Lazio, dalla Toscana all’Umbria e poi ancora in Toscana e ancora in Umbria fino al ritorno a Napoli, come una pallina in un flipper, che ribalza da una parte all’altra dello Stivale, alla ricerca di riparo e di cure.

Le trovano al Vanvitelli, il Policlinico di Napoli, dove Flavia viene presa in carico dall’équipe del professor Carotenuto e portata in salvo grazie a un ricovero durato tre mesi. Perché esistono realtà eccellenti in grado di offrire reali opportunità di recupero. Solo, non sono diffuse in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale e questo è un dato davvero agghiacciante in un contesto già terrificante.

I disturbi alimentari, infatti, rappresentano la seconda causa di morte negli adolescenti, ma hanno un tasso di guarigione del 70%, se affrontati con interventi appropriati e garantiti per tutti. L’unica vera speranza di cura e ripresa passa solo da lì.

Leggi tutto l’articolo su Vanity Fair.

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