Quando le terapie convenzionali smisero di essere efficaci, fu proposto a mia madre di entrare in un progetto sperimentale all’Ospedale Humanitas per la cura del suo linfoma.
Le prospettive erano molto compromesse e non avendo molto da perdere, quella proposta le sembrò un’opportunità da cogliere al volo.
Sulla soglia del suo studio, ci accolse un uomo non particolarmente alto, con lo sguardo severo ma i modi garbati. Il professor Carlo-Stella ci fece accomodare, poi, come da prassi, chiese a mia madre di raccontare da capo tutta la storia della sua malattia.
Come da prassi. Mi accorsi del mio pregiudizio quando notai il modo con cui il medico ascoltava mia madre e seguiva il filo del discorso, scorrendo pagine e pagine di documentazione clinica, e poi ancora, quando ci spiegò in cosa consistesse la sperimentazione. Immaginando che nessuna di noi fosse esperta, Carlo-Stella ci illustrò come funziona la cura di alcuni linfomi con anticorpi monoclonali con parole semplici accompagnate da scarabocchi su una carta, e con grande onestà aiutò mia madre a scegliere in modo consapevole la sperimentazione.
Conservo ancora i disegni dell’anticorpo che come un kamikaze riconosce le cellule malate da combattere, lasciando intatte le altre. Con parole facili da capire e qualche bozzetto schizzato a penna su un foglietto, il medico si conquistò la fiducia di mia madre e la mia.
Sapevo che stavo assistendo a un momento del tutto speciale: due sconosciuti a confronto e il loro rapporto di fiducia appena nato.
Ai medici che frequentano i miei corsi ricordo quanto potere hanno sui pazienti: quello che dicono, come lo dicono mentre hanno davanti a sé il paziente spesso va oltre il valore e il senso di ciò che dicono. La fiducia del paziente nel proprio medico partecipa al processo di guarigione. E quella fiducia si costruisce sulla comunicazione: parole, modi, sguardi.
Una volta l’opinione del medico era indiscutibile, anche se incompresa. La difficoltà a comprendere certe espressioni specialistiche è ancora oggi quasi del tutto invariata, ma sono cambiate alcune condizioni esterne, che spesso aggravano la confusione del paziente.
Il medico di base, per esempio, ha ridotto i tempi di visita medi, limitando lo scambio di informazioni e il contatto fisico: il medico resta dietro la scrivania a compilare richieste di visite specialistiche, irraggiungibile. Ed è percepito sempre più come un tecnico e sempre meno persona cui affidare le proprie sofferenze. Per condividere ansie, preoccupazioni o per chiedere chiarimenti non c’è tempo; così, spesso, il paziente esce dallo studio medico con tutta l’ansia con cui era arrivato. Tutt’al più con qualche richiesta di esami specialistici.
Poi ci sono le parole. La loro scelta influenza sempre la relazione fra due interlocutori e quando questa fallisce, le conseguenze sono pesanti.
La scelta delle parole può influenzare le scelte: un paziente, può prendere decisioni diverse se il medico gli prospetta un 60 per cento di fallimento o un 40 per cento di buon esito di una terapia. Oppure creare confusione: basti pensare che un risultato “positivo” in medicina è quasi sempre una brutta notizia.
Ogni lingua settoriale ha le proprie espressioni tecniche. Attraverso un codice condiviso, gli specialisti comunicano fra loro in modo efficace, identificando concetti precisi e immediatamente riconoscibili con espressioni incomprensibili agli esterni.
Avviene in tutti i settori: i giuristi parlano di purgazione della mora, i teologi di dulia e di latria, i linguisti di denotazione e connotazione. Sono i cosiddetti “tecnicismi specifici”: parole che costituiscono il lessico dei linguaggi settoriali e che rimandano a una determinata sfera specialistica.
Il loro uso è stato spesso additato come responsabile della cattiva comunicazione dei medici con i loro pazienti, ma non sempre a ragione: una volta spiegata l’espressione tecnica, infatti, è facile orientarsi nel discorso: la purgazione della mora nel linguaggio giuridico è l’eliminazione degli effetti creati da un pagamento effettuato in ritardo (3 parole anziché 10); mentre latria e dulia sono termini teologici che in ambito cristiano si riferiscono ai culti riservati rispettivamente a Dio e ai santi (2 parole anziché 8); e in medicina, l’emianopsia è la perdita di metà del campo visivo (1 parola anziché 6).
Tuttavia, ci sono moltissime espressioni che caratterizzano i linguaggi settoriali che rispondono ad altri obiettivi: al desiderio, o all’opportunità, di usare un registro elevato, distinto dal linguaggio comune.
Sono i “tecnicismi collaterali”. Mentre quelli specifici si riferiscono a concetti precisi, si possono spiegare e possono essere noti anche al profano (ora sapete tutti che cos’è l’emianopsia!), i “tecnicismi collaterali” sono le parti del discorso che danno il sapore di “medichese” al linguaggio, che possono essere sostituite senza che l’esattezza scientifica ne risenta: espressioni tipiche dei linguaggi di casta, che mettono in soggezione il paziente meno competente. E che lo tengono a distanza.
In medicina, possono riferirsi a nomi generici, vaghi come fatto o fenomeno (fenomeno ischemico); a parole di registro più elevato rispetto al linguaggio comune: chi sono i pazienti pediatrici se non i bambini? In qualche caso le espressioni vengono usate in modo ambiguo dal punto di vista semantico. Per esempio, nella lingua del paziente “positivo” rimanda a “cose belle”. In medicina, come si è visto, normalmente non è una buona notizia. Oppure “sofferenza epatica”: “sofferenza” per il paziente è “dolore”; ma la sofferenza epatica non dà necessariamente dolore fisico al paziente, che potrebbe essere ammalato senza avere sintomi.
Il medico ha sempre il dovere etico di affiancare il proprio paziente e di comunicare nel suo linguaggio è il primo passo. Non si tratta di un generico “essere gentili”, ma di una competenza professionale che influisce sul buon esito della terapia.
Nelle malattie croniche, per esempio, spesso sono gli sessi malati il primo vero intralcio alla terapia assegnata dal medico. Il motivo? Non capiscono le indicazioni del medico, e così smettono di seguirle. Per curare efficacemente un malato cronico, non basta limitarsi alla corretta interpretazione dei sintomi e alla prescrizione di farmaci. Il medico deve stipulare con lui una vera e propria alleanza terapeutica, per insegnare e negoziare; per motivarlo e accompagnarlo in tutto il percorso della malattia. Il medico, insomma, deve imparare a impostare un consulto motivazionale, a stabilire una relazione cooperativa efficace con il malato e la sua famiglia, come fece il professor Carlo-Stella con noi, attraverso le sue parole accessibili e i suoi scarabocchi sui fogli. La fiducia si comincia a costruire da lì: dalla condivisione della stessa lingua. Ogni relazione, del resto, si fonda sulla comunicazione, contenuto e forma. Se le due lingue restano troppo diverse, per quanto bendisposti si sia, agli occhi del paziente, alle sue orecchie, al suo cuore, il medico apparirà sempre uno straniero.