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Noi, gli altri e le mappe: come prevenire le incomprensioni

Dicembre 27, 2020

Anche se parliamo la stessa lingua, a volte sembriamo davvero stranieri a confronto. A volte si tratta di incomprensioni da poco, altre portano a veri e propri casi di “flaming”: prendiamo fuoco. Da cosa nasce l’incomprensione? E come si può prevenire?

“Perché le parole che scriviamo per noi stessi sono sempre migliori di quelle che scriviamo per gli altri?”

Comincia così uno dei dialoghi più belli di “Scoprendo Forrester”, storia dell’incontro fra un anziano e burbero scrittore e Jamal, giovane studente che a scrivere non se la cava male, ma non se lo fila nessuno.

Le cose che scriviamo per noi stessi sono sempre più comprensibili di quelle che scriviamo per gli altri, per una ragione molto semplice: chi legge e chi scrive sono la stessa persona! Le difficoltà nascono quando a leggere ciò che scriviamo sono gli altri, con punti di vista, conoscenze e schemi mentali.

La mappa della realtà non è la realtà

La prima volta che venne elaborato questo concetto era il 1931 e fu un matematico a presentarlo,

Alfred Korzybski (si pronuncia Kojübski) in un documento sulla semantica matematica, cioè rapporto della matematica con il linguaggio umano e di entrambi con la realtà fisica. Il concetto, contenuto in quel documento complesso, è semplice: la mappa non è il territorio. In altre parole, la descrizione della cosa non è la cosa stessa. Il modello non è la realtà. L’astrazione non è l’astratto.

Le mappe sono rappresentazioni della realtà e per mappe intendiamo qualsiasi astrazione della realtà, comprese descrizioni, teorie, modelli, ecc. Queste rappresentazioni sono imperfette riduzioni della realtà; del resto, se una mappa rappresentasse il territorio con perfetta fedeltà in scala 1:1, non sarebbe più una rappresentazione e non ci sarebbe in alcun modo utile. Le riduzioni ancorché imperfette, ci sono necessarie: la mente le crea, infatti, perché l’unico modo in cui possiamo elaborare la complessità della realtà è attraverso l’astrazione. Il problema è che spesso non capiamo i limiti degli strumenti che usiamo e diamo per scontato che il nostro punto di vista sia l’unico possibile. Non che sia un male: fare così ci permette di risparmiare un sacco di tempo in dispendiose elaborazioni di dati inutili! Ma è bene ricordare che non tutto quello che è ovvio per noi lo è necessariamente anche per il nostro lettore.

Pensate a un cane

Facciamo un esempio. Pensate a un cane. Immaginatelo bene, definite nella vostra testa i dettagli: stazza, pelo, muso, coda, orecchie, colore, dimensione, razza.

Che cane avete visualizzato? Probabilmente il vostro amato Fido che sta occupando il divano al posto vostro, o il bassotto della zia, o il pastore tedesco della vicina, o il barboncino di quella del piano di sopra che vi fece pipì sulle scarpe, il vostro primo giorno di lavoro.

Qualunque sia la vostra risposta, tutti avete declinato la “canità” cioè i concetti invarianti che fanno di un cane un cane, appunto: quattro zampe, muso largo o stretto, pelo lungo o rado, e così via.

E qui sta il bello: ciascuno declina la “canità” a suo modo, secondo la propria esperienza più o meno diretta, le proprie percezioni e le proprie opinioni a riguardo.

Leggo decine di mail in cui le persone finiscono per litigare solo perché hanno interpretato una frase, un’affermazione o anche una sola parola in modo diverso rispetto al proprio interlocutore e questo basta per mandare tutti fuori strada.

Guardate sempre le cose da un altro punto di vista, anche se vi sembra scomodo.

Questo è usare #parolegagliarde.

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