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Il valore dell’ortografia

Ottobre 5, 2021

Da un paio di settimane ho ripreso a insegnare in università a Parma, ai futuri assistenti sociali. Come ogni anno, il primo incontro lo dedico a presentare il corso di Scrittura efficace per il Servizio sociale, il bisogno a cui dà risposta, le finalità che persegue e il modo in cui mi sono immaginata di raggiungerle.

La riflessione su cui poggia tutto il lavoro che propongo in classe è semplice: poiché scrivere è l’azione regina dell’assistente sociale, occorre condurla con maestria, in modo impeccabile in ogni passaggio, dalla sua ideazione alla sua pubblicazione. Questo significa che l’assistente sociale deve formarsi sia come professionista capace e responsabile, mettendo a punto il proprio metodo nel rispetto deontologico e dei mandati professionale, istituzionale e sociale, sia contemporaneamente come efficace business writer. In altre parole, deve saper applicare il metodo attraverso un uso disinvolto della scrittura professionale, per facilitare processi di aiuto a vantaggio di persone in condizione di fragilità. Non esiste una professione in cui la scrittura abbia valenza maggiore.

In aula dopo la DAD

Incontro in miei studenti in aula, dopo due anni di didattica a distanza e decido di verificare il livello di competenza linguistica, prerequisito per poter planare leggiadri su temi come la struttura di un testo, la semplificazione del linguaggio, la calibrazione del lettore e la UX experience. Così preparo un test di ingresso che propongo agli allievi al nostro primo incontro: una prova composta da esercizi ortografici, di punteggiatura, analisi grammaticale, analisi logica e analisi del periodo.

Risultato: un disastro. Nessun elaborato svolto senza errori e la maggioranza con lacune gravissime, inconcepibili.

Diciotto-ventenni, appena usciti dalle scuole superiori, primi giorni di settembre: neanche una sufficienza. Su 33. Nei loro test trovo di tutto: errori di sillabazione (na/cque), di ortografia (tacquino, taqquino), di morfologia (ho tutte le informazioni che ho bisogno; Luca ha discusso con Davide e non li rivolge più la parola), di sintassi (Chi di voi ha portato questo regalo a Raffaella? – soggetto: il regalo). E io vorrei scomparire.

Non so come sia potuto accadere e vorrei non chiedermelo, anche se mi risulta difficilissimo. Dico solo che queste ragazze e questi ragazzi, che hanno meno di vent’anni, ne hanno passati tredici a scuola: cinque alle elementari, tre alle medie e altri cinque alle superiori e la maggior parte di loro non conosce la grafia corretta dell’italiano, non sa usare la punteggiatura, né riconoscere un soggetto, un predicato verbale o nominale, un complemento oggetto, o distinguere un avverbio da una congiunzione. Ora, non stiamo parlando di tradurre Platone in latino (e nemmeno in italiano), analizzare i Canterbury tales o le metafore di García Lorca. Stiamo parlando delle conoscenze di base della lingua italiana, che è la lingua che parliamo da quando siamo nati (le persone nate all’estero iscritte al mio corso sono tre e hanno condotto il proprio ciclo di studi in Italia). Quelle conoscenze sono semplicemente assenti.

L’ortografia a vent’anni

Ora, cosa ci faccio io? Come recupereremo il tempo perduto e come lo recupereranno loro?

Come si può imparare a vent’anni la calligrafia, l’ortografia e la grammatica, che andavano imparate da bambini? Sono queste le domande che mi affollano i pensieri e mi lasciano interdetta. La risposta è avvilente, nella sua sconfortante semplicità: non ce la faremo. Perché sono processi che richiedono tempi lunghi, che devono sedimentare e radicare dentro, nella mente. Senza contare il guaio aggiuntivo di aver acquisito abitudini sbagliate, che è ancor più complicato sradicare; sembra un paradosso, ma credo sarebbe più facile cominciare da zero. De-strutturare è sempre più complicato e siamo fuori tempo massimo. A vent’anni i giochi sono fatti e ognuno si tiene gli errori che fa.

Certo, finché c’è vita c’è speranza e meglio tardi che mai, ma in 36 ore io come devo riadattare il programma del corso se le esigenze sono queste? Posso proporre loro un dettato a ogni incontro, all’inizio della lezione, tipo il dettato di benvenuto? Potrei, se non suonasse vagamente umiliante. E allora – mi dico – dovrò soprassedere, se non vedessi per loro un’umiliazione ancora più grande, quando, professionisti, sbaglieranno ancora a scrivere po’ o dà o né, dimostrando di non saper scrivere in modo corretto.

Minuzie e quisquilie

Qualcuno penserà che chi se ne frega dell’ortografia, i problemi sono ben altri! Le ingiustizie sociali, la fame nel mondo, lo sfruttamento delle risorse, l’inquinamento globale: come puoi perdere tempo dietro a cose di così poco conto come un apostrofo, un accento o una virgola? Eppure, non mi rassegno a sentirmi stupida e inadeguata, né rinuncio a correggere frasi sconnesse, parole scorrette, pensieri che zoppicano per trascuratezza. Per due ragioni fondamentali: la prima è che, a dirla con David Foster Wallace, le persone ci giudicano. Lo fanno per un sacco di motivi, per come vestiamo, per come parliamo, per la marca di scarpe che indossiamo o per il computer che usiamo. Le persone ci giudicano anche per come scriviamo e quando lo facciamo in modo sciatto, scorretto, trascurato questa è l’immagine che di noi offriamo agli altri: sciatta e trascurata. Altro che professionisti eccellenti!

La seconda è che l’ortografia non è solo ortografia. Non è una quisquilia. Non è pura forma, superficie, accessorio. Scrivere c’è né invece di ce n’è fa una bella differenza. Saperlo scrivere nel modo giusto non solo evita brutte figure, ma ha in qualche modo a che vedere con una funzione straordinaria della nostra mente: la strutturazione del pensiero. Significa sapere cosa si scrive, significa conoscere, e ri-conoscere, il senso di quelle tre piccolissime parole: il ce, il ne, la è. Significa discernere, separare, distinguere.  Scrivere c’è ne o c’è né o ne o cené, al contrario, significa non saper «distinguere» quelle tre paroline, e quindi non capire quel che si scrive: non capire, insomma, perché sia giusto (ovvero dritto) che ce n’è si scriva così e solo così.

Vi affidereste a chi non percepisce le differenze,  il senso e l’esattezza del senso?

Commenti

  • Sono una ragazza di diciannove anni iscritta al primo anno del corso di laurea di Servizio Sociale.
    Ho appena conseguito il diploma di scuola superiore in un liceo classico e leggere di come la grammatica, l’ortografia, la sintassi siano ormai cadute in disgrazia mi provoca sempre un certo stupore e turbamento.
    La scrittura è fondamentale, inutile girarci attorno, inutile pensare che possa essere sostituita dalla comunicazione audio e visiva che, ad oggi, va tanto di moda.
    Ho passato gli ultimi cinque anni a sfogliare le pagine di grammatiche latine e greche e dei corrispettivi dizionari per arrivare sempre a un solo risultato: sentirmi ignorante.
    Ignorante perché incapace di comunicare con la stessa efficacia e forza espressiva degli autori che più mi hanno emozionata, che mi hanno lasciato qualcosa dentro, che mi hanno esortato a pensare, a riflettere su me stessa, su ciò che mi circonda; autori che grazie alle loro opere mi hanno spronato a crescere e a trovare un mio stile.
    Scrivere per me è come respirare, la scrittura è stata un elemento portante nella mia vita e, nonostante questo, avverto delle difficoltà, dei dubbi e spesso mi rendo conto di star annegando in un mare di futili subordinate perché incapace di chiarire un concetto.
    Imparare adesso la grammatica è una bella sfida: noi studenti siamo pigri, svogliati, troppo permalosi per ammettere i nostri errori, soprattutto quando questi sono così umilianti ed evidenti, nero su bianco.
    Una sfida che ci tengo a cogliere e affrontare.
    Durante le prove invalsi di italiano svolte a maggio ho avuto modo di leggere un estratto di un saggio dove si parlava di errori grammaticali e lessicali come una possibile evoluzione del linguaggio determinata dall’avanzata dei social, dall’utilizzo di tastiere e di correttori che automatizzano il pensiero dei singoli per conformarlo alla massa.
    Secondo questo testo la caduta di un apostrofo, di un accento, di una doppia non sarebbe un errore quanto, piuttosto un’evoluzione.
    Ho pensato di riportare questo pensiero poiché è un punto di osservazione da me sempre ignorato e, nonostante mi trovi in disaccordo con quanto detto, non posso fare a meno di pensare che tra quindici, venti o cinquant’anni la scrittura possa essere effettivamente diversa da quella insegnata dalle grammatiche.
    Personalmente sono disposta ad accettare critiche, giudizi e consigli per imparare a sfruttare al meglio il miglior mezzo di comunicazione che ho.

    • Cara Elisa,
      la curiosità e la sensazione di non sapere mai abbastanza sono due risorse straordinarie. Indaga, approfondisci, non darti mai per arrivata.
      Se quando scrivi senti che le parole si bloccano da qualche, allora ascolta la scrittura: ti sta offrendo il suo servizio più prezioso. Ti sta dicendo che quello che hai in mente non è ancora chiaro abbastanza, che serve più luce per definire meglio un concetto, o i dettagli, o le concatenazioni di un processo. Torna indietro senza stizza né risentimento.
      Per quanto riguarda invece l’evoluzione della nostra lingua, chissà che faccia farebbe Cicerone se vedesse come scriviamo oggi! È una legge inesorabile quella che trasforma le lingue verso formule sempre più semplici ed economiche. Con buona pace dei grammatici, che possono solo registrare come i parlanti usano una determinata lingua in un determinato momento storico. Le lingue, in fondo, sono codici e funzionano in base a convenzioni fra loro e coloro che le usano. Questi accordi sono la cosiddetta norma linguistica, che è “accettata” da una comunità di parlanti e non “imposta” loro. Quindi che fare? Imparare le regole o fregarsene? Abbracciare un approccio prescrittivo (si fa così!) o descrittivo (la gente fa cosà)? La verità forse sta da qualche parte in mezzo: da una parte è bene conoscere le regole per usare al meglio la nostra lingua. Dall’altra, però, non si può ignorare la pressione che l’uso esercita sulla norma, causando cambiamenti nel tempo, anche importanti. Come quando sono andate in disuso le declinazioni, nel passaggio dal latino alle lingue volgari. C’est la vie. (Ma gli esami che sostenete con me, scriveteli CORRETTI eh!!)

  • Condivido ogni singola parola! Tempo fa, leggendo il post di una professionista sulla sua pagina LinkedIn ho trovato un orrore grammaticale ripetuto più volte e, in effetti, la reazione che ho avuto, di pancia, è stata di incredulità e delusione. Può sembrare eccessivo, me ne rendo conto, ma mi ha dato l’impressione di trascuratezza e superficialità rispetto all’utilizzo dello scritto. La grammatica dovrebbe essere studiata con cura ed interiorizzata in modo indelebile perché rappresenta il materiale con cui costruiamo i nostri pensieri e li portiamo fuori da noi.
    Grazie infinite, come sempre, per questi preziosi spunti di riflessione!

    • Cara Virginia, ti ringrazio tanto per questo parere. È così: a volte ci capita di commettere qualche errore, e magari la comprensione della frase non viene inficiata. Tuttavia succede – e succede sempre – che chi ci ascolta rimanga per un attimo in sospeso, fra incredulità e confusione. Poi magari, nella sua testa, ricostruisce la frase in modo formalmente corretto, emendando l’errore, togliendolo, rimuovendolo. Ma non lo butta via, no, no. Lo appiccica in qualche modo sulla nostra persona, inconsapevolmente, in modo naturale. Ecco, non deve succedere. Occorre saper maneggiare con cura il linguaggio, perché quello forma prima i nostri pensieri e poi il biglietto da visita con cui ci presentiamo agli altri e sulla base del quale veniamo giudicate e giudicati.

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